Francine Prose, Settembre 2013 (ENG version)
“È delle città come dei sogni: tutto l’immaginabile può essere sognato ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio, oppure il suo rovescio, una paura. Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto, le loro regole sono assurde, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un’altra.”
Le città invisibili, Italo Calvino
Ci sono città che visitiamo e rivisitiamo nei nostri sogni. A volte le riconosciamo grazie all’esperienza della veglia; qualche volta un aspetto del sogno ci ricorda una città in cui abbiamo viaggiato in passato. Talvolta vaghiamo per gli anditi e i recessi del sogno senza avere idea di dove siamo e ancor meno di dove stiamo andando. Altre volte la nostra consapevolezza onirica sa esattamente dove ci troviamo, anche se è chiaro che la città sognata non ha nulla di fisico in comune con la città in cui sogniamo di essere.
Forse è una città che non vediamo da anni e che, anche allora, non sembrava affatto quella che stiamo attraversando nel sogno. Molto spesso la riconosciamo soltanto grazie ai sogni precedenti, durante i quali abbiamo vagato per la stessa città sconosciuta ma che ci è stranamente familiare. Là ci siamo persi, così come abbiamo smarrito la strada molte altre volte in passato. Le strade svoltano e si aggrovigliano nel labirinto che tentiamo di rievocare. Se solo riuscissimo a ricordare come abbiamo fatto a ritrovare la strada l’ultima volta, perché ci trovavamo proprio lì, dove pensavamo di essere o dove stavamo andando.
La cosa più strana e difficile da spiegare è che a volte (durante la veglia) siamo in grado di visitare città vicine o lontane, esotiche o del tutto comuni. È qualcosa che in parte somiglia a un déjà vu: sentiamo di essere già stati in quella città, ma non nella vita reale. In qualche modo scopriamo, nella vita reale, la Kabul o la Kyoto dei nostri sogni.
Quando ero bambina, le mie storie preferite, che erano anche quelle che mi turbavano di più, erano i racconti di città fantastiche come Atlantide, città che appaiono e scompaiono, che un viaggiatore può vedere una volta soltanto e che non ritroverà mai più. Forse ciò che mi turbava di più erano le parabole segrete, celate dietro a queste storie, riguardanti il modo in cui il tempo e l’esperienza isolano il passato e lo trasformano, a nostra insaputa, nella città del sogno che non può restare uguale a se stessa, che non possiamo più trovare o visitare, che non avrà mai più quella grandezza e quell’aura di mistero che aveva quando eravamo piccoli. Per un bambino ogni città può diventare potenzialmente la città del sogno. Basta un cambio di luce, un mutamento delle stagioni, un invito ad avventurarsi al di là dei rassicuranti confini del vicinato, dei riferimenti sicuri e confortanti del giorno, per entrare nel sorprendente e seducente labirinto della città di notte.
Nel racconto Le botteghe color cannella, lo scrittore polacco Bruno Schulz manda un ragazzo in giro di notte per recuperare il portafoglio dimenticato dal padre, e il ragazzo scopre una città completamente diversa. “È una leggerezza imperdonabile mandare un ragazzo in una notte simile con un incarico importante e urgente, perché nella penombra le strade si moltiplicano, si confondono e si scambiano l’una con l’altra. Nel cuore della città si aprono, per così dire, strade doppie, strade sosia, strade ingannevoli e fallaci. Stregata, aberrante, l’immaginazione crea una pianta illusoria della città, apparentemente ben nota e risaputa, in cui le strade hanno un loro posto e un nome, mentre la notte nella sua inesauribile fecondità non trova di meglio da fare che fornire sempre nuove e immaginarie configurazioni”1. In un altro racconto di Schulz, La Via dei Coccodrilli, il ragazzo trova nella scrivania del padre un’antica mappa della città in cui vivono: “In quei piani ravvicinati l’incisore aveva saputo rendere la complessa e tumultuosa profusione delle vie e delle viuzze, la nitida evidenza dei cornicioni, architravi, archivolti e pilastri rilucenti nell’oro tardo e scuro del nuvoloso pomeriggio, che affondava le rientranze e le nicchie nel seppia profondo dell’ombra. I blocchi e i prismi di quell’ombra si stagliavano, come favi di miele scuro, nelle gole delle strade, affondavano nella loro massa tiepida e densa, ora la metà di una via, ora la breccia fra due case, drammatizzando e orchestrando con il lugubre romanticismo dell’ombreggiatura quella molteplice polifonia architettonica. Su quella pianta, disegnata nello stile delle vedute barocche, il quartiere della Via dei Coccodrilli spiccava come un vuoto bianco, lo stesso con cui nelle carte geografiche si suole indicare le regioni polari, i paesi inesplorati e di incerta esistenza”.
La bellezza e il mistero delle fotografie di Irene Kung creano una mappa della città molto simile, la città diurna trasformata nella città notturna dei sogni. Nelle sue immagini le cattedrali diventano palazzi celesti così come dovevano apparire ai fedeli, ignari di architettura e di scienza delle costruzioni. I monumenti conservano la loro identità e la loro collocazione geografica e tuttavia, nell’abbandonare la terra per innalzarsi verso l’inconscio, si liberano delle loro apparenze culturali e funzionali per divenire mirabili astrazioni. Le cupole di una moschea si trasformano in una squadriglia di astronavi che inviano messaggi dai loro pianeti verso la scura terra su cui stazionano. Al contrario, ci si potrebbe chiedere che cosa ci fa una croce in cima alla turbinante cupola, simile a una moschea, del Sacro Cuore.
Sono sufficienti una manipolazione della luce e quella luminosità particolare della visione di Irene Kung per dissolvere la linea apparentemente uniforme che separa la realtà dall’immaginazione, e per far sì che i nostri occhi ricreino lo stesso artificio, così come fanno nei sogni. Da un punto di vista razionale, sappiamo che la chiocciola gigante e la dea nella sua lunga veste sopra un carro trainato da leoni sono statue, sono fontane. Ma occorrono alcuni istanti per accorgersene, durante i quali si forma un’impressione che non potrà mai essere cancellata del tutto: l’illusione che siano esseri reali, creature in movimento in una nuvola scintillante di acqua e foschia. L’edificio del Parlamento inglese ci fa venire in mente una tenuta di campagna da cui il cavaliere e il suo cavallo sono appena partiti. Anche se sappiamo perfettamente che le piramidi sono costruite partendo dal basso, da un’ampia e solida base fino al vertice in alto, le immagini di Irene Kung danno l’impressione che siano state create in un altro luogo e siano state poi collocate lì già formate.
Nel mondo diurno, l’architettura è un libro aperto in cui è possibile leggere chiaramente la grafia della storia e del tempo. Queste fotografie invece, dissolvono in modo così perfetto il confine fra passato e futuro, da rendere irrilevanti i concetti di “epoca” e di “stile”, così come avviene per chi sogna. Chi avrebbe potuto immaginare che i contrafforti e le guglie di Notre Dame avrebbero atteso l’oscurità per rivelare la loro natura segreta di missili in partenza?
Quando cerchiamo di immaginare che cosa ricordano i soggetti di queste immagini, ci potrebbero venire in mente opere d’arte famose, non perché le fotografie della Kung gli somiglino del tutto, ma perché queste evocano la stessa libertà di essere state affrancate dai vincoli della realtà della veglia. Così l’immagine della Kung di Plaza Mayor a Madrid somiglia solo in parte a quello spazio pubblico in cui abbiamo camminato durante le nostre passeggiate nella capitale spagnola, ma ricorda piuttosto un fondale di una scatola di Joseph Cornell in cui avremmo sempre voluto entrare. La centrale elettrica di Battersea invece, richiama il futuro visionario e terribile che Fritz Lang ha creato e ci ha lasciato come oscuro dono e monito in Metropolis. Per qualche motivo siamo sicuri di avere visto la Torre Velasca di Milano in un vecchio film di fantascienza, ma in quale? La risposta ci sfugge proprio come accade molto spesso nei sogni.
Stranamente o meno, quanto più conosciamo un edificio, un luogo o un monumento tanto più crediamo di conoscerlo e ancora maggiore è la sorpresa nel vedere come appaia trasformato in queste fotografie. Potremmo passare sul ponte che attraversa l’Isola Tiberina tutti i giorni senza renderci conto, finché Irene Kung non ce lo mostra in una nuova prospettiva, di quanto somigli ad Atlantide appena riemersa dalle acque del Tevere, pronta a scomparire di nuovo fra i suoi mulinelli. Sono cresciuta all’ombra dell’Empire State, del Flatiron e del Chrysler Building e rivederli nelle fotografie di Irene Kung mi fa venir voglia di uscire e di prenderli alle spalle di soppiatto, ignari, nel cuore della notte, così come un bambino immagina di scendere le scale di nascosto per spiare quelle situazioni della vita che i grandi tengono nascoste.
L’assenza di persone nelle sue fotografie le rende ancora più intime, più drammatiche e cinematografiche e nonostante abbiano il potere di evocare un mondo in cui gli uomini se ne sono andati o sono scomparsi, queste immagini possiedono, nella loro essenza e nel loro mistero, quella solidità e quella persistenza paradossali che sono proprie dei sogni più eterei. La città è lì. È sempre stata lì. Le foto di Irene Kung ce lo ricordano: dobbiamo soltanto chiudere gli occhi, addormentarci e attendere il sogno in cui ci apparirà.